Yes, We Trump! – Il libro per “capire” l’uomo, il personaggio e la presidenza di Donald Trump in vista delle elezioni USA 2020. Le mie impressioni e l’intervista all’autore, il giornalista Luca Marfé.
Un libro dal titolo inequivocabile, “Yes, We Trump!”, che con non poco coraggio alza il velo del politically correct – in cui tutto deve necessariamente essere suddiviso in bianco e nero, sfumature incluse – e racconta con estrema chiarezza, onestà e senza sconti di alcun tipo l’uomo, il personaggio ed il presidente The Donald.
Un libro per chi ha voglia di capire e conoscere, al di là di qualsiasi orientamento o idea politica, le reali motivazioni sociali ed economiche che hanno spinto una grande fetta di cittadini americani ad eleggerlo presidente nel 2016, e che analizza in maniera approfondita i quattro lunghi e burrascosi anni alla Casa Bianca arrivando a disegnare linee e contenuti del possibile scenario delle elezioni USA 2020.
Un libro che abbandona volutamente il “politichese” con l’intento di arrivare a tutti. Scritto da un giornalista napoletano, Luca Marfé, che di politica statunitense e di “americani”, se ne intende. Non a caso è stato uno dei pochi italiani a seguire dal vivo buona parte della campagna presidenziale 2016 e ad aver macinato miglia negli USA più remoti assieme al collega Federico Rampini per intervistare lo zoccolo duro dell’elettorato americano.
Un libro che ho accettato di leggere e quindi di raccontare, attraverso un’intervista al suo autore, perché gli Stati Uniti d’America sono una bellissima e complicata contraddizione in termini e solo chi li ha esplorati davvero può (provare) a capirne luci, ombre e sfumature.
La passione nasce dal ricordo di mio padre.
Il mio eroe, l’uomo che tornava a casa con le valigie fasciate di etichette lunghissime, stampate in ogni angolo del mondo. Quando parlava di America, però, si illuminava. Quella luce mi è rimasta addosso e quasi è diventata più forte quando mi ha lasciato. Io ero giovanissimo, poco più che bambino. La promessa di andarci assieme, un giorno, era infranta. Ma nel frattempo, il desiderio era diventato prima il sogno e poi la realtà. Avevo 17 anni, era l’estate della mia maturità: una prima volta che non sarebbe finita mai più.
Da lì la smania di conoscere ogni miglio, di parlare con chiunque, di provare a capire. Tra i miei grandi amori di sempre, anche la politica e la storia. Il salto era dunque naturale: studiarne i volti, le dinamiche, il sistema. Sentirmi un po’ americano anch’io, senza essere mai fino in fondo uno di loro. Mantenendo cioè quel grado di oggettività che può contraddistinguere solo chi osserva dall’esterno, con almeno un piede fuori dal contesto.
Un’oggettività, e una passione, che ho cercato di imprimere in ogni parola di Yes, We Trump!
Perché scrivere di Donald Trump? Perché scegliere di raccontare agli Italiani uno dei Presidenti degli Stati Uniti d’America più discussi e chiacchierati di sempre? Ho come l’impressione, correggimi se sbaglio, che – pur analizzando l’uomo ed il personaggio con estrema onestà mettendone in rilievo pregi e difetti – forte della tua esperienza “sul campo” tu abbia voluto fare chiarezza su tante vicende e momenti politici legati alla sua figura, sollevando il filtro di un’informazione non sempre imparziale. E’ così?
Perché Trump è un fenomeno.
È un fenomeno odioso per molti, ed è questa l’unica chiave attraverso la quale è stato raccontato in Italia.
È un fenomeno rivoluzionario per altri, ed è questa la grande ragione grazie alla quale è diventato presidente.
È oggettivamente un fenomeno in chiave comunicazione, tanto per fare un altro esempio. 15mila tweet in tre anni non li vanta neanche il più attivo degli influencer a stelle e strisce. Motivo per cui, in uno dei passaggi forse più leggeri di questo libro, l’ho etichettato come la «Chiara Ferragni della politica americana».
Insomma, che piaccia oppure no, siamo dentro la Storia. Quella di una presidenza che nel bene e nel male lascerà un solco nella memoria, quella di un uomo imprevedibile e incontenibile e di conseguenza interessante. Una vicenda istituzionale e personale praticamente senza precedenti. Se non si raccontano queste di storie, noi scrittori di che cos’altro dovremmo scrivere?
Trump è il contrario della banalità.
Concordo con Federico Rampini, che considero un Gigante, e che ho l’onore di vivere come un Maestro.
E non potrebbe essere altrimenti perché, comunque vada a finire questo 2020 e qualunque cosa verrà poi negli anni a venire, si è chiusa l’epoca della cosiddetta vecchia politica. Dell’establishment arroccato nei palazzi del potere, lontano dalle reali necessità di un popolo che personaggi come Trump, per quanto scomposti, hanno contribuito a risvegliare, a rendere più consapevole dei propri diritti e della propria forza. Questo almeno in una democrazia matura come quella degli Stati Uniti.
Sull’Italia, ad esempio, nutro molti dubbi in più, ma per fortuna, almeno professionalmente, non sono chiamato ad occuparmene.
Il tycoon è un punto di non ritorno.
Se i democratici vogliono riprendersi la Casa Bianca, devono tornare ad aderire ad una base dalla quale si erano più o meno consapevolmente scollati.
Trump non è un errore di sistema. Trump è un calcio al sistema.
Che errore pensare di poter capire gli Stati Uniti da New York, da Miami o da Los Angeles.
Ed è francamente incredibile ripensare a quanti colleghi, assai più esperti e illustri di me, abbiano commesso questo errore. Incredibile al punto che verrebbe quasi da dubitare della loro buonafede.
Fiutata al tempo la vittoria di Trump, cominciai a parlarne ad alta voce. A momenti mi davano del pazzo.
Ero uno dei pochissimi che a New York guidava una macchina e mi bastava scappare di tanto in tanto fuori città per comprendere quanto stava per accadere. Fuori dai soliti circuiti, tirava un’aria diversa.
Il contadino del Connecticut, il meccanico del New Hampshire o il pescatore del Maine non la pensavano di certo come il miliardario di Manhattan. L’insofferenza montava, ma qualcuno non la vedeva o meglio fingeva di non vederla, sperando di non doverci fare i conti dopo.
E poi i viaggi con Federico Rampini, i reportage lunghi 9mila miglia in macchina, gli operai di Detroit che ben spiegavano che non erano stati loro a voltare le spalle alla sinistra, ma che era stata la sinistra a voltare le spalle a loro.
L’America è tutta un viaggio, bisogna scorrere, andare oltre. Sono tanti mondi diversi. Bisogna mettersi seduti con ciascuno, bisogna guardarli dritti negli occhi, bisogna ascoltare più che parlare.
E ancora, in fondo: chi potrebbe dire di conoscere l’Europa perché ha visitato Roma?
E tutto il resto? Tutto il resto lo conosciamo?
Pur essendo un Paese solo, questo tipo di approccio per gli Stati Uniti paradossalmente vale persino di più.
Il più grande imprevisto della Storia di cui le nostre generazioni abbiano memoria diretta.
Una follia inimmaginabile soltanto fino a una manciata di mesi fa, cui mi limito ad accennare nelle ultime pagine del libro.
Cambiano molte cose, certo. La gente ha paura, i numeri dell’economia sprofondano, l’autostrada che sembrava condurre Trump dritto alla riconferma del 3 novembre 2020 comincia a sgretolarsi.
In questo squarcio di apocalisse, le vie sono due: o gli americani si affideranno all’uomo forte, e allora Trump avrà paradossalmente gioco ancora più facile. O gli americani lo giudicheranno colpevole del disastro, e allora si affideranno a chiunque altro. “Persino” a Joe Biden. Sottolineo il persino perché non c’è un solo aspetto in relazione al quale brilli. Non le idee, non il carisma, non la leadership.
Un candidato che non entusiasma nessuno, nemmeno il suo partito che si è mostrato più interessato a fare frettolosamente fuori i candidati scomodi (Bernie Sanders su tutti) che non a individuare la vera chance in lui. Biden, che nella politica ci è praticamente cresciuto dentro, è la fotografia perfetta della vecchia politica che seppur per una manciata di voti (in meno) l’America ha già rispedito a casa una volta. Inconsistente al punto che la campagna elettorale gliela stanno facendo Barack Obama e Hillary Clinton. Non esattamente una garanzia di successo, in particolare la seconda.
Per concludere, la sensazione è che al centro della scena, per quanto tradito da una difficoltà nuova, ci sia comunque un protagonista solo: Donald J. Trump.
Un lavoro splendido, il tuo.
Per quanto possa apparire a primo acchito antipatico, per gli Stati Uniti Trump è un colossale spot in carne ed ossa.
E lo è, per quanto già detto, proprio di quegli Stati Uniti lontani dalle coste, di quelle geografie cui siamo mediamente meno abituati e dunque tutte da scoprire.
Il suo interesse di presidente è senz’altro quello di potenziare vaste aree in cui la crisi economica ha falcidiato intere comunità.
L’interesse di noi viaggiatori potrebbe, e addirittura azzardo un “dovrebbe”, essere invece quello di conoscere l’America per davvero, magari in macchina, magari fermandosi di tanto in tanto per rendersi conto di quanto sia meravigliosamente grande.
Articolo scritto in collaborazione con Luca Marfé per Yes, We Trump!