Non te ne accorgi subito, anzi da principio ti senti quasi smarrita.
Attraversi l’ampia Zmaja od Bosne, la strada che dall’aeroporto ti conduce in città e ti senti come catapultata in una terribile realtà parallela.
E’ la via dei cecchini, tristemente nota perchè era qui che durante la guerra civile i soldati serbi, appostati sulle colline circostanti, sparavano sulle persone che terrorizzate tentavano di attraversarla.
In silenzio osservi quei lugubri palazzoni che portano ancora i segni più che visibili dei colpi delle granate e le costruzioni ancora semidistrutte lasciate lì non tanto per la memoria come ti verrebbe naturale pensare (“loro”, lo capisci poi, se potessero le butterebbero giù anche domani), quanto perchè non ci sono le possibilità economiche per crearne di nuove.
Non te ne accorgi finchè non arrivi nella città vecchia, cambiano le costruzioni, da quelle tipiche della grande Jugoslavia a quelle splendide che rimandano ai fasti del periodo austroungrarico e che costeggiano il lungofiume.
Non cambiano purtroppo i segni della guerra civile, i buchi delle granate sulle facciate dei palazzi sono anche qui, testimoni muti di un passato terribile che, incurante del dolore che ancora provoca, a tratti riemerge.
Lo vedi negli occhi delle persone che incontri, apparentemente sereni eppure velati di una malinconica tristezza, nei loro atteggiamenti, gentili ma guardinghi, lo percepisci dai loro discorsi, mai diretti eppure così carichi di riferimenti.
Non te ne accorgi fino a quando a piedi dal vecchio Ponte Latino raggiungi l’antico quartiere turco della Bascarsija.
Lasciandoti alle spalle il fiume Miljacka che lento e silenzioso attraversa la città ti ritrovi, all’angolo con Obala Kulina Bana la strada che lo costeggia, nel luogo in cui (ironia di una storia che, crudele e dissennata, si accanisce su una terra bellissima e fragile) l’azione sconsiderata di un nazionalista serbo, ignara pedina di un progetto decisamente più complesso, diede il via allo scoppio della prima guerra mondiale.
Una lastra di pietra ed un piccolo museo raccontano la storia di Gavrilo Princip, che pistola alla mano il 28 giugno del 1914 assassinò l’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia.
Poi d’improvviso, come se stessi sfogliando velocemente le pagine di un grande libro di storia, ti ritrovi nella vecchia Bascarsija, nel dedalo di viuzze dell’antica zona ottamana.
I tuoi sensi si acuiscono, osservi i minareti che protesi verso il cielo ti sembra quasi rivaleggino tra loro per bellezza ed eleganza, ascolti il brusio animato della gente che a tratti si contrappone al canto lento e cadenzato del Muezzin, il vociare dei venditori, il battito costante dei cesellatori di rame ed argento, distingui, tra i mille odori del souq, il profumo di un Cevapi appena servito.
Stordita continui a camminare, inizi ad intuire ma non ti basta, percepisci che c’é dell’altro e così istintivamente prosegui.
Sulla via Mula Mustafe Baseskije ti imbatti nel giro di pochi metri, in un arco di tempo cha va dal XIV al XIX secolo, in una Moschea, in una Chiesa Ortodossa, in una Sinagoga ed infine in una Cattedrale Cattolica e finalmente capisci.
Sarajevo e’ così, bella, struggentemente bella.
Quell’avvenenza magnetica ed incomprensibile che solo le città che trasudano storia e sofferenza hanno.
Inizialmente, come se volesse metterti alla prova, come se tu avessi bisogno proprio di questo per capire, quasi ti respinge mostrandoti il suo lato più crudo, poi lentamente ti seduce, aiutata dal suo fascino millenario ti mostra quello che é stata nei secoli, quello che tanto vorrebbe continuare ad essere, un’amalgama di razze e religioni, un crocevia tra oriente ed occidente.
Ti induce a pensare che dietro quel conflitto dilaniante mai definitivamente sopito che in tanti ancora oggi definiscono etnico, ci sia in realtà molto altro.
Allora sei pronta ad ascoltare i racconti di chi quella storia tremenda l’ha vissuta davvero, a camminare per pochi disagevoli passi in un Tunnel di 1 x 1,5 m, ad intuire l’angoscia e la speranza, la forza e la disperazione.
Sei pronta a salire su una collina, ad entrare in uno dei più grandi ed antichi cimiteri ebraici, quello di Yraca, oggi tristemente e forse volutamente abbandonato, e a farti spiegare di come i cecchini, appostati qui, si “divertivano” a scegliere i loro bersagli in base al colore di una maglia.
Sei pronta ad ascoltare le motivazioni dell’ennesima violenta protesta, della quale ti trovi involontaria spettatrice, contro un potere, diviso, sporco, lacero che “balla” sulla sofferenza di un popolo.
E alla fine del tuo percorso ti senti diversa, sono ancora tante le domande certo, ma sei consapevole che sarà impossibile riuscire a dare a tutte una risposta.
Sai solo che l’ennesimo tramonto rosso fuoco che dalla Miljacka arriva fino alla Collina di Vratnik non ha più lo stesso sapore della prima sera,.
Ed infondo é giusto che sia così.
13 Comments
Era proprio questo il senso del mio post…
Io non sono stata più la stessa dopo Sarajevo…ho bisogno di tornarci perchè mi sta chiamando, ma come te so che non sarà più la stessa cosa di quando ci misi piede il primo giorno, la prima volta. Se posso consigliarti un libro, magari l’hai già letto, ti consiglio “Maschere per un massacro” di Paolo Rumiz (per capire l’inganno di quella che i media hanno spacciato per guerra etnica) e se invece vuoi struggerti di malinconia “La Cotogna di Istanbul” (sempre ambientato a Sarajevo nonostante il titolo) sempre di Rumiz…
Grazie Chiara…
Sarajevo ti ha fatto, credo, lo stesso effetto che ha fatto a me. Anche io ti consiglio maschere per un massacro se non l’hai già letto…
Da quello che mi hai raccontato della “tua” Sarajevo, credo anche io che abbiamo avuto impressioni e turbamenti simili…
Conosco “Maschere per un massacro”, e’ uno dei libri ai quali mi sono “affidata” per tentare di colmare le mie lacune…
Brava Simona,io non sono mai stata a Sarajevo,spero di avere un giorno l’opportunità di andarci e di riuscire a fare..un viaggio “dell’anima”come hai fatto tu..A volte si parte x un viaggio di conoscenza..che poi si tramuta in qualche cosa di più profondo…bisogna essere però pronti ad aprire le nostre porte .interne..altrimenti non si coglie l’essenziale..ma tu ci sei riuscita..un abbraccio
Grazie Valeria, tengo molto alla tua opinione!!
Un viaggio, questo, che fa parte di quelli che ti rimangono dentro. Che sono un po’ un pugno nello stomaco se vogliamo, perché li “senti” e perché non si tratta solo di visitare luoghi nuovi ma di visitare luoghi in cui è accaduto qualcosa che non può e non deve lasciare indifferenti.
Un gran bel post questo, grazie Simona 🙂
Grazie Farah, davvero…
per un attimo mi sono ritrovata anch’io in quei luoghi così vicini e così lontani……..
Felice di “averti portata” con me, Melica…
È vero. Come è stato detto sopra, Sarajevo ti cambia. Dopo averla visitata, con enorme emozione e provando sensazioni molto simili a quelle che traspaiono dal tuo scritto, non sono più riuscito a togliermela di dosso. Ho letto tutto quello che ho trovato su Sarajevo, compresi i bellissimi libri di Rumiz citati sopra, e ho scritto anche un racconto ambientato nell’assedio.
( Seguendo la peeghiera della coltissima guida sarajevese che mi accompagnò a piedi per la città: parla di Sarajevo, racconta quanto è bella, dì a tutti ciò che hai visto).
Sarajevo fa questo effetto…